di Paolo Zatta
La Saccisica è quel microcosmo compreso tra i corsi d’acqua Cornio e Brenta che ne segnano i confini su tre lati, mentre il quarto è rivolto verso le lagune: i maritimi fines. Per molti secoli l’uomo della Saccisica ha dovuto lottare con una natura selvaggia per renderla vivibile: regimentando le acque, bonificando terreni paludosi, fino a trasformare gli acquitrini in suolo produttivo.
Il territorio della Saccisica (Terra Saccensis) fu abitato dai Veneti antichi, occupato “pacificamente” dai Romani, conquistato dai Longobardi, sconfitti poi dai Franchi, dominato dagli imperatori germanici, retto dal Vescovo patavino-Conte della Saccisica, sfruttato dalle varie Signorie fino all’arrivo della Dominante: la Repubblica di Venezia. Alla Serenissima, noi Saccensi, siamo debitori non soltanto nel campo dell’arte e dell’architettura dove ha lasciato delle tracce profonde, ma soprattutto per la saggia politica di difesa del territorio a partire dal miglioramento del sistema idraulico (Cessi, 1960) che ancora oggi protegge le nostre terre da possibili eventi catastrofici.
La nostra è storia antica e ben documentata (Rippe, 2003); numerosi reperti archeologici, trovati soprattutto lungo le vie fluviali tra Padova e Piove di Sacco e quindi fino a Lova, ne sono la testimonianza (Carta Archeologica del Veneto, 1992). Il ritrovamento di due ciottoloni funerari d’epoca paleoveneta nell’area di Piove di Sacco agli inizi del ‘900 è particolarmente indicativo per l’importanza storica delle iscrizioni ancora oggi leggibili: in uno dei due reperti appare la scritta “MUSTAI”, che significa “persona iniziata ai riti misterici”, di sicura provenienza culturale greca; mentre nell’altro appare la scritta “PILPOTEI”, di chiara radice greca che significa “Signore della Polis”. Se, come dice Loredana Capuis (Capuis, 2003 e 2004) associamo queste scritte di sapore greco con il “TIVALEI” celtico trovato in un ciottolone del Piovego patavino, al “RAKOI” etrusco-greco della stele di Camin, o all’OSTIS di Lova, appare chiaro che il nostro territorio fu frequentato da persone e gruppi d’origini e culture diverse. Molto probabilmente ai tempi del già menzionato”Signore della Polis” esisteva nel territorio padovano una società ben organizzata e gerarchizzata, costituita da villaggi di agricoltori-allevatori con funzioni militari di difesa coordinati da un primus inter pares, il “Pilpotei” dei ciottoloni piovesi (II secolo a.C.?) (Prosdocimi, 1976).
Sull’esistenza di una Polis patavina che comprendeva anche l’area della Saccisica, pronta e decisa a reagire in maniera organizzata per difendere la propria autonomia contro invasioni esterne, è di grande interesse e di pregante forza narrativa il racconto di Tito Livio su un fatto avvenuto intorno al 302 a.C.
Ecco il racconto di Livio.
“…una flotta greca agli ordini dello spartano Cleonimo approdò sulle coste italiche, andando a occupare la città di Turie nel territorio dei Salentini. Fu inviato ad affrontarlo il console Emilio che mise in fuga Cleonimo con un’unica battaglia, costringendolo a trovare riparo sulle navi. Turie venne così restituita ai suoi cittadini, e nel territorio salentino ritornò la pace. Dopo aver doppiato il capo di Brindisi ed essere spinti dai venti in mezzo all’Adriatico, tenendo sulla sinistra le coste italiche prive di porti e sulla destra la presenza di Illiri e Istri (popoli bellicosi e di pessima fama perché dediti alla pirateria), avanzarono fino alle coste abitate dei Veneti. Lì Cleonimo, dopo aver sbarcato alcuni uomini col compito di esplorare la zona, ricevette queste informazioni: che c’era una sottile striscia di terra oltre la quale si aprivano lagune alimentate dall’acqua del mare; che si vedevano lì vicino campagne pianeggianti e, poco oltre, colline; che inoltre avevano individuato la foce di un fiume molto profondo dov’era possibile ormeggiare le navi in maniera sicura (il Brenta). Allora Cleonimo ordinò di trasferire la flotta in quella zona risalendo la corrente. Poiché il letto del fiume non permetteva il passaggio delle navi più pesanti, la massa degli uomini si trasferì sulle imbarcazioni più leggere e arrivò in una zona molto abitata, dov’erano stanziate le tribù marittime dei patavini. Sbarcati in quel punto, dopo aver lasciato una piccola guarnigione di presidio alle navi, espugnarono i villaggi, incendiarono le abitazioni, portarono via uomini e animali, allontanandosi sempre più dalle navi nella prospettiva di ulteriore bottino. Quando a Padova arrivò la notizia di ciò che stava succedendo, gli abitanti, costretti a un perenne allarme dalla minaccia dei Galli, divisero le proprie forze in due contingenti. Il primo si portò nella zona in cui erano state segnalate le incursioni nemiche, l’altro, seguendo un percorso diverso per non incontrare gli avversari, si diresse invece verso il punto in cui erano ancorate le navi, a quattordici miglia dalla città. Eliminati gli uomini di guardia con un attacco di sorpresa, si riversarono sulle navi, costringendo i marinai a spostarle sulla sponda opposta del fiume. Anche lo scontro sulla terraferma contro gli autori dei saccheggi ebbe esito positivo. E mentre i Greci cercavano scampo in direzione delle navi, vennero affrontati dall’altro contingente di Veneti, che li accerchiò e massacrò. Alcuni prigionieri rivelarono che la flotta col re Cleonimo si trovava a tre miglia di distanza. Così, dopo aver lasciato i prigionieri in un villaggio dei dintorni perché fossero sorvegliati, i Patavini, imbarcandosi parte sui battelli da fiume costruiti apposta col fondo piatto per affrontare i bassi fondali delle lagune, e parte invece sulle imbarcazioni sottratte ai Greci, raggiunsero la flotta nemica, circondandone le navi rimaste immobili per paura del fondale sconosciuto più che del nemico. E mentre i Greci fuggivano verso il largo senza nemmeno cercare di opporre resistenza, i Patavini li inseguirono fino alla foce del fiume, e dopo aver strappato loro alcune delle navi, finite nella grande confusione sui banchi di sabbia, rientrarono vincitori. Cleonimo se ne partì con soltanto un quinto della flotta senza aver raccolto alcun risultato in nessuna parte dell’Adriatico.”
(Tito Livio, Ab Urbe Condita, Storia di Roma, Libro X).
Secondo lo storico veneziano Giacomo Filiasi (1750-1829), le navi spartane entrarono nel lido di Pellestrina o nel porto di Chioggia. Gli uomini, inviati da Cleonimo in avanscoperta, giunsero in territorio padovano risalendo il fiume Cornio (Medoacus minor) verso Montalbano, Fogolana e Conche dove esistevano dei villaggi “nei contorni dell’antica borgata di Piove di Sacco e nel suo pinguissimo territorio” (Filiasi, 1811). La risposta della “Polis” al tentativo d’occupazione spartana fu pronta e risolutiva.
Intorno al II-I secolo a.C., i Veneti furono pacificamente conquistati dai Romani che incorporarono il territorio padovano e la Saccisica nella “X Regio Venetia et Histria”, uno degli ambiti territoriali in cui l’imperatore Augusto aveva suddiviso amministrativamente l’Italia. Con la colonizzazione romana si sviluppò un’ampia rete viaria che mise il nostro territorio in comunicazione con le più importanti vie di comunicazione dell’impero, allora in fase d’ espansione verso est. Il complesso viario portò al sorgere di numerosi insediamenti che si accompagnarono alla Centuriazione tesa a bonificare, per trasformare in terre produttive, tutte quelle zone basse e paludose con scarsa pendenza, e quindi soggette all’invasione delle acque dei fiumi. La Saccisica fu un importante sito d’ acquartieramento romano.
Il territorio padovano fu organizzato in tre agri centuriati (Cittadella, Camposampiero e Piove di Sacco) con la formazione di borghi (pagi) e villaggi di dimensioni minori (vici) lungo le principali vie di comunicazione (Salvadori, 1961; Zerbinati, 1986; Frison, 1993). I veterani delle guerre imperiali, divenuti i nuovi proprietari terrieri, spesso a scapito degli abitanti locali, diedero un importante impulso all’economia con un’estesa opera di bonifica e creando le condizioni per un’agricoltura intensiva. Venne inoltre sviluppata e la pastorizia dove non erano necessarie vaste estensioni di terreno essendo sufficienti i pascoli prelagunari (Panzarino, 2000). Il toponimo “Desman“, presente in alcuni documenti medioevali, ricorda un villaggio tra Cona e Correzzola, oggi scomparso, che originava il suo nome dal Decumanus Maximus, ovvero l’asse est-ovest della centuriazione. Il toponimo è ancor’oggi presente in alcune realtà territoriali della provincia di Venezia. Un’altra indicazione sulla centuriazione potrebb’essere l’orientamento della pianta della città di Piove di Sacco simile ad un Castrum romano (Pesavento, 1984).
La Saccisica, è proprio il caso di dirlo, è sempre stata penalizzata nella ricerca archeologica dalla mancanza di scavi sistematici. Ciononostante la presenza romana è ben testimoniata dal materiale archeologico rinvenuto nelle aree di S. Angelo, Vigorovea, Brugine, Campagnola, Arzergande, Vallonga, Campolongo e nella località Ardoneghe di Brugine dov’è stata trovata un’ara della fine del I secolo dedicata al dio Nettuno (Rosada, 2003). Gli insediamenti d’epoca romana nella Saccisica erano sicuramente di livello elevato com’è testimoniato dai resti delle villae, ossia le lussuose abitazioni con annessi rustici per le produzioni agricole quasi precursori delle future ville venete. Il ritrovamento di alcune tombe romane nelle zone di Sant’Angelo, Vigorovea e Arzergrande sono le preziose testimonianze giunte fino ai nostri giorni della qualità degli insediamenti (Zampieri, 1998; Hiller et al., 2002).
Oggi purtroppo le tracce della centuriazione sono in buona parte scomparse, o almeno difficilmente individuabili, per la profonda trasformazione dell’ambiente a causa d’ inondazioni e rotte dei fiumi avvenute in epoche diverse (Gloria, 1877), nonché per l’opera dell’uomo. In ogni caso è ancora oggi possibile riconoscere in alcuni tratti del territorio la Limitatio romana attraverso la lettura delle tavolette dell’IGM (Istituto Geografico Militare) dove si scorgono resti di centuriazione, attraverso l’orientamento dei filari, il percorso dei canali irrigui, la struttura fondiaria. Secondo alcuni studiosi già prima dell’occupazione romana esisteva una suddivisione “ordinata” del territorio, ma la questione è ancora al centro di un controverso dibattito scientifico.
Con la caduta dell’Impero Romano il territorio della Bassa Padovana iniziò un lento ed inesorabile declino. Contemporaneamente ad un periodo funesto di guerre ci furono cataclismi naturali, come quello narrato da Paolo Diacono avvenuto nel 589, che sconvolsero la morfologia del territorio cambiando il corso dei fiumi come l’Adige ed il Brenta che, uscendo dai loro alvei naturali, dilatarono le zone paludose della bassa in prossimità del mare. I Romani avevano dato un peso enorme alla manutenzione costante dei corsi d’acqua ed alla sorveglianza degli argini impiegando mezzi considerevoli per l’arginatura e l’indigamento delle acque. I boschi erano mantenuti e rimpinguati soprattutto lungo gli argini dei fiumi in quanto le radici degli alberi creavano una maggior stabilità al suolo contro potenziali erosioni, alluvioni e “rotte”. Fu necessario un enorme lavoro di canalizzazione, come avverrà anche più tardi in epoca medioevale, vista la vicinanza della “bassa” con il mare (Rosada, 1980). La costruzione di “fosse” faceva parte di un complesso sistema di canalizzazione che serviva a raccordare trasversalmente vari corsi d’acqua in una rete mirabile di canali che realizzavano un sistema di navigazione interna tale da permettere, come ricorda Plinio il Vecchio, la comunicazione con centri importanti come Altino.
La Saccisica, per le sue caratteristiche morfologiche di “terra anfibia”, fu sempre un territorio difficile da gestire, e la manutenzione era una necessità costante che venne tuttavia a mancare con la caduta del potere imperiale romano. In epoca tardo-imperiale si registrò un forte calo demografico a causa di pestilenze e contagi e a poco valse la politica di ripopolamento messa in atto con l’insediamento dei vinti delle guerre di conquista come i Goti, gli Alemanni, i Saci, i Sàrmati ed altri ancora dei quali rimangono ancora oggi residui linguistici nei nomi della gente o negli antichi toponimi (Ciola, 1997). Con il degrado del territorio ritornò la primitiva boscaglia col rovere, il tiglio, il frassino laddove un tempo esistevano le coltivazioni utili per il sostentamento della popolazione, mentre nelle terre basse ritornarono le paludi e gli acquitrini con la vita malsana. Gli argini divennero i principali percorsi di comunicazione, assieme alle vie d’acqua, perché più sicuri. Si sviluppò il canneto e l’ambiente riconquistò la prevalenza palustre. La centuriazione romana, che caratterizzava il piovese, cominciò a perdere le sue evidenze col sopraggiungere di nuovi orizzonti climatici caldo-umidi che favorirono, o meglio consolidarono, un paesaggio paludoso che durerà per secoli finché giungeranno i Padri Benedettini portatori sia di un rinnovamento spirituale, ma soprattutto di un nuovo, significativo sviluppo economico con le bonifiche.
Alla ricerca del significato del nome Saccisica
Ritroviamo la Saccisica nella documentazione storica in epoca carolingia, con un riferimento risalente all’ultimo periodo del regno Longobardo. Carlo Magno tra il 759 ed il 774 conferma una donazione al Monastero di Sesto in Friuli, già concessa in precedenza dal re longobardo Adelchi, del villaggio chiamato Sacco appartenente al fisco imperiale (Castagnetti, 1997; 1997b): “….eo quod Adelchis, qui fuit rex Langobardorum, suo dono ei concessisset ex fisco nostro, quod in palacio nostro seu in curte ducali nostra Tarvisiana consuetudo erat persolvendi de vico qui dicitur Sacco….” (Buhl, 1973). I Saccensi, “habitantes in valle qui vocatur Sacco“, (Cavanna, 1967) nonostante abbiano alle loro spalle molti secoli di storia, a tutt’oggi, non hanno ancora un nome codificato nel dizionario della lingua italiana. I dizionari della nostra lingua nazionale indicano i “Saccensi” come gli abitanti di Sciacca in Sicilia (De Mauro, 2004): una dimenticanza imperdonabile che con qualche difficoltà stiamo cercando di correggere.
Sull’origine del nome Saccisica sono state avanzate varie ipotesi, ma per ora stiamo ancora navigando nel buio. Fra le ipotesi più fantasiose c’è quella che farebbe derivare il nome “Sacco” al cognato del mitico eroe troiano Antenore, Esaco, figlio di Priamo, che giunse a questi luoghi dopo la sconfitta di Troia. Secondo Pietro Pinton “La regione detta Sacho, Fine Saccisica, Terra Saccensis, nota già dal IX secolo, si nominava così certamente nei precedenti secoli barbarici, mentre non aveva questo nome nei secoli dell’impero romano” (Pinton, 1990a). Sul fatto che il nome Sacco non esistesse al tempo dei Romani viene a contraddirlo Filiasi (1811): “Noi sospettiamo ch’essa (Plebs saccisica) ivi esistesse anche ai tempi dei romani e allora si chiamasse Pagus Sacisicum, e il principale vico fosse di picciolo popolo o comunità allogata su quel margine col nome di pagani sacenses“. Per i Romani pagus rappresentava un aggregato di molti borghi abitati da un popolo in grado di gestirsi autonomamente con magistrati propri. In base ai documenti in suo possesso Filiasi afferma che il Cornio (Medoacus minor) “….sempre Sciocco fu detto… che unito al ramo del Medoaco maggiore (Brenta) passava per il Piovevano…, e correa per di là nella laguna cinque miglia lungi da Sacco“. Pertanto, con la logica del Filiasi, si potrebbe supporre che Pago sacisco possa aver originato il nome dal fluvius saciscus, l’alveo del Medoaco minore. Il Filiasi inoltre sembra avere delle certezze anche sulla presenza di due villaggi situati lontani l’uno dall’altro, ma appartenenti ad una stessa cultura. Egli è convinto infatti che “…siano sempre stati nelle maremme nostre ben lontani però l’uno dall’altro due pagi sancisci“. Uno di questi si trovava nei pressi di Butrio “sopra uno di quei rami australi del Po” col nome di Sacis ad Padum, capoluogo di una tribù etrusca assai potente. L’altro stava su uno dei Medoaci, che per distinguerlo dal primo veniva chiamato Sacis ad Medoacum, corrispondente all’attuale Piove di Sacco “che sempre fu luogo di grossa popolazione e capoluogo pure di un picciolo ma grasso territorio” (Filiasi, 1811). Se i due Sacis fossero stati fondati ambedue dagli Etruschi Saci o Assaci, questo il Filiasi non azzarda affermarlo. I Saci o Assaci furono descritti da Plinio come grandi ingegneri che per primi intrapresero la regimentazione delle acque con le colmate del Po, costruendo fosse e canali. Non si può pertanto escludere a priori che, essendo i due Sacis distanti appena 50 chilometri l’uno dall’altro, non fossero stati fondati ambedue dai Saci l’uno sul Po l’altro sul Medoaco. Il Pinton tuttavia insiste su un’origine etnografica del termine Saccisica: “Ai primi barbari, assoldati dal sovrano di Ravenna, succedono coi Longobardi i Saccisici, che altri Germani non potrebbero essere che i Sassoni, Sachsen, Saccisici, Saccenses: i pochi che si saranno adattati a seguire le leggi longobarde dominanti, rimanendo soggetti alla giurisdizione del conte di Treviso, e le seguono anche sotto il dominio franco, italiano e sassone” (Pinton, 1990b).
Altre ipotesi etnografiche fanno derivare Saccisica da Saces, il milite latino citato da Publio Virgilio Marone, nel “De Lingua Latina“: il veterano delle guerre imperiali, se non addirittura dai Saci, una popolazione iraniana a nord dell’impero persiano citata da C. Valerio Catullo e da Plinio il Vecchio che assieme ai Sàrmati furono presenti, come già detto in precedenza, nel nostro territorio nella politica di ripopolamento attuata dagli imperatori romani dopo le pestilenze che decimavano gli abitanti delle nostre terre.
Alcuni vedono l’origine di Saccisica dal latino Saccus che nel medioevo significava l’erario (dell’Imperatore) come sembrerebbe far supporre l’atto di concessione dell’Imperatore Berengario I dell’897 a Pietro suo Arcicancelliere e vescovo di Padova (Schiapparelli, 1903).
Andrea Gloria (1821-1911), storico e paleografo, si muove su un percorso completamente diverso da quello intrapreso da Filiasi e Pinton. Egli, infatti, ricorda che il nome Sacco esisteva ab antico escludendo tuttavia l'”ipotesi economica” in quanto “niun altro luogo, sebbene spettante all’erario del principe, si nominò colla parola Saccus” (Gloria, 1865). E questo ci sembra alquanto ragionevole. Lo studioso padovano propende per la derivazione del nome dal fiume Sciocco che attraversava il piovese, come Padova origina dal Po (Padus), Este dall’Adige (Athes) ecc.. Ciò sarebbe confermato dalla citazione di detto corso d’acqua in documenti antichi anche se il nome risulta distorto come “Seuco” o altri simili.
Fra le varie ipotesi, qui brevemente riportate, la più plausibile sembra essere tuttavia quella che fa derivare il nome dalla configurazione morfologia del territorio anfibio dove le acque avrebbero formato una sacca. La Saccisica era costituita, infatti, da ampie zone paludose dove prevaleva l’incolto con vaste superfici di boschi dove i villaggi assunsero spesso nomi di piante o fitotoponimi (Rosara = Rosaria, Legnaro = Lignarium, Vigorovea = Vicus robeus, Concadalbera = Conca de arbore e altri ancora) o da caratteristiche morfologiche del territorio (Vallonga = Vallis longa, Campolongo = Campus longus) (Todaro, 2004). Già nell’VIII secolo d.C. il nome Sacco viene ricordato nella documentazione come un’ insenatura naturale senza sbocco: una sorta di cul de sac, una “saccatura” tra fiumi e corsi d’acqua abbandonati (Olivieri, 1961). Ancor’oggi sono presenti nelle nostre lagune e valli numerose sacche come, solo per fare qualche esempio, Sacca Fisola e Sacca Sessola a Venezia, la Sacca Scardovari, ma anche le nostrane Sacca dell’Aseo (Valle della Dolce), Sacca Grande (Valle Millecampi), Sacca Cassaga (Valle Morosina); per non citare poi il più noto Cason delle Sacche che concentra nel nome tutto un programma di morfologia territoriale.
Conclusione
L’ambiente ostile che nel passato la natura ha riservato alla nostra terra ha portato l’uomo saccense ad un continuo confrontarsi con la durezza della vita quotidiana, ma anche con la sua determinazione a rendere questi luoghi produttivi e quindi vivibili. Tra paludi, acquitrini, corsi d’acqua, pantani, e dossi, la Saccisica affonda le sue radici in un territorio sorto sull’acqua. Non fu forse così anche per quel miracolo dell’uomo iniziato attorno alle isole Realtine?
Il cemento della ricostruzione postbellica ha invaso spazi riservati un tempo alla natura ed all’equilibrio con le acque. “…un’orrida visione di capannoni industriali costruiti senza alcun rispetto delle norme più elementari di urbanistica” è lo scenario descritto da uno dei più noti fra i giornalisti-scrittori del Veneto contemporaneo (Cibotto, 1985). E non è da meno Ulderico Bernardi,: “…la centuriazione romana, disegnata da cardi e decumani, che si offre al viaggiatore nel cuore del Veneto… con caratteri quasi integri, lungo rettifili tracciati 2000 anni fa e appoderamenti che ripetono i confini antichi, rischia di finire sommersa dalla speculazione dei capannoni” (Bernardi, 2005).
Il “miracolo economico”- con l’affermarsi del ben noto”modello di sviluppo Veneto”- ha dato senza dubbio prosperità ad un territorio che sulla fame prendeva lezione da pochi, ma nello stesso tempo ha imposto un costo altissimo (Stella, 2004) alla conservazione di quel paesaggio da sogno descritto da molti viaggiatori e scrittori del ‘700.
Il paesaggio naturale, per quel che oggi rimane nel nostro territorio, molto deve alla fatica immane degli “scariolanti” ed alla tenacia monacale dei Padri Benedettini che vollero le bonifiche, ma col prezzo pagato da schiene spezzate “…per la capacità dei nostri uomini d’altri tempi di realizzare uno scenario armonico fatto di spazi sacri e profani. E immediata si propone la comparazione con l’abominio di ferite inflitte al paesaggio contemporaneo……la voglia di trasformare ogni angolo in uno spicchio di periferia urbana, fitto di condomini, supermercati, parcheggi, capannoni industriali e seconde case, porta a cancellare la ragione stessa del turismo, che è la ricerca della diversità, in natura e nelle culture.” (Bernardi, 2005).
Il paesaggio che oggi vediamo intorno a noi è profondamente mutato rispetto a quello descritto dall’abate Giuseppe Toaldo (1719-1797), fondatore e primo direttore dell’osservatorio astronomico di Padova, professore di geografia e fisica all’Ateneo patavino, che così lo descrisse”…tutto quello che può servire ai bisogni e alle delizie della vita: pianure feraci di tutte le specie di grani cereali; colline amene, dilette a Bacco a Minerva … incanti di prospettive, montagne e valli, coperte di boschi e di legnami da fuoco e da fabbrica, colà pascoli ….per la gregge ed armenti; razze di cavalli generosi, di superbi buoi…ed altri quadrupedi e volatili, domestici e selvaggi, i più grandi, i più fini, i più rari; squisiti pesci, laghi, fiumi reali, torrenti immensi, canali navigabili, naturali ed artefatti, acque minerali, ….erbe e piante; ..aggiungete la salubrità dell’aria e del clima; questi sono beni e privilegi, dalla natura largamente profusi sul Veneto clima” (Bernardi, 2005).
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Nota
Una prima versione del presente testo è stata pubblicata in “NATURA E AMBIENTE in Saccisica e dintorni” (a cura di Paolo Zatta), edito dalla Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco, 2005.