di Giorgio Meneghetti e Leonardo Minozzi, foto di O.Biolo
Potrebbe sembrare abbastanza facile definire il concetto di casa rurale: altro non è, o non dovrebbe essere, che l’abitazione dei lavoratori che, a vario titolo, hanno legato e legano la propria attività (e quella della loro famiglia) all’ambiente agricolo.
In realtà un approccio meno superficiale al tema apre orizzonti vasti di valutazioni e richiami, che intrecciano, in modo a volte sorprendente e inestricabile, aspetti culturali, sociali, economici, storico-architettonici, funzionali e tecnici che definiscono, in modo sempre originale, i rapporti tra chi abita la campagna e la realtà territoriale, mutevole nel corso dei secoli e nelle varie accezioni geografiche, che ne costituisce il contesto: un rapporto nel quale la casa rurale ha sempre rivestito il ruolo di strumento di mediazione, che raccoglie tutti questi segni e li concretizza, potendosi così far leggere e interpretare.
In questo senso i limiti del nostro contributo, che vuole portare l’attenzione su quanto l’edificazione rurale possa essere stata (ed essere oggi, sia pure in negativo) testimone delle trasformazioni del territorio e della società nella Bassa padovana, e nella Saccisica in particolare; trasformazioni che a fronte di un lunghissimo periodo di sostanziale stabilità per quanto riguarda gli aspetti più marcatamente tipologici, vale a dire quelli inerenti i modelli costruttivi delle abitazioni, hanno conosciuto nell’ultimo periodo una accelerazione tale da portare alla attuale situazione di perdita di ogni identità propria di tali elementi abitativi.
Negli ultimi decenni si è assistito, infatti, ad uno stravolgimento profondo della realtà rurale veneta, che passa dalla povertà assoluta alle dinamiche del boom economico degli anni sessanta, per assestarsi, infine, in una forzata decontestualizzazione di edifici ricadenti in zone che di agricolo conservano ben poco e che vengono sempre più considerate alla stregua di zone residenziali diffuse, facilmente disponibili, a basso costo iniziale e di appetibile qualità abitativa.
Un processo, questo, che la Saccisica ha interpretato a suo modo, soprattutto in ragione delle peculiarità ambientali del suo territorio, sempre così conteso tra terra e mare e costretto a dipendere per la propria sopravvivenza dalle grandi opere idrauliche.
Esaminando il tema della metamorfosi della casa rurale, si deve preliminarmente considerare che, in realtà, storicamente si parla di vari tipi di residenze connesse alla conduzione dei fondi agricoli: così come vi erano le case bracciantili, altrettanto importanti erano le residenze del gastaldo o dei proprietari, con ovvie variazioni di temi tipologici, funzionali e di uso dei materiali da costruzione.
Un tratto comune è però rappresentato dal fatto che in tutti i casi non si sta parlando solamente di un edificio destinato ad alloggio di una famiglia, ma si deve sempre considerare che con il termine casa rurale si identifica un complesso di strutture destinate ad abitare e produrre, organizzate nel fondo in modo sapiente sfruttando le potenzialità del sito (orientamento, rapporto con i corsi d’acqua e con le alberature, riutilizzo delle deiezioni animali, pozzi), con rappresentazione palese e ante litteram di quella sostenibilità ambientale e di quella integrazione con la natura di cui oggi tanto si parla ma che difficilmente si riesce a realizzare.
Ecco cosi che, nell’organizzazione del fondo agricolo, quasi sempre articolato in forma di corte aperta, sono sempre presenti le stalle per gli animali, da lavoro e da allevamento, con abbeveratoio e letamaio, i ricoveri per gli attrezzi (il barco), i magazzini per i prodotti, il pollaio e tutto quanto serve per la normale vita contadina.
Ovviamente il fulcro di tale complessa organizzazione rimane la casa d’abitazione, storicamente tanto più ricca ed articolata, quanto più sia elevato il livello sociale ed economico di chi la abita.
Tenendo conto di tali premesse, vogliamo qui esaminare due delle principali tipologie presenti nel nostro territorio: la casa bracciantile e la fattoria, nelle loro varie declinazioni.
Certo sono presenti nel nostro territorio anche altre forme di insediamento rurale: la villa, la boaria, la corte, che rappresentavano il fulcro di vasti possedimenti, ma questo esula dalla nostra trattazione che cerca di illustrare le tipologie più semplici, che caratterizzano maggiormente il nostro paesaggio agrario, o almeno quello che ne rimane, e la cui aggregazione è stata comunque sempre utilizzata anche in organizzazioni fondiarie più complesse.
Queste categorie nel corso dei secoli si sono adattate ed evolute in rapporto alle diverse necessità, dettate dalle trasformazioni storiche del territorio; ciò nonostante, riteniamo che le categorie individuate abbiano mantenuto inalterato lo specifico carattere che le differenziava un tempo, almeno fino alla fine dell’Ottocento e inizio del Novecento quando, a seguito delle grandi trasformazioni della proprietà fondiaria, si è progressivamente accentuata la crisi dei rapporti tra i vari protagonisti della realtà economica contadina, per finire ai giorni nostri con la sostanziale distruzione dello stesso concetto di zona rurale, intesa come area destinata alla produzione agricola, progredendo rapidamente verso la saturazione fisica di tali aree, con il trionfo di una sostanziale conformità di soluzioni edilizie, volte più che altro alla riproposizione acritica e mal digerita della tipologia propria della villetta urbana.
Brevi cenni di storia
E’ difficile e pretenzioso individuare “il” momento storico in cui si é iniziato a coltivare in modo estensivo e continuativo il terreno, accettando di combattere la quotidiana lotta per sottrarre queste terre all’acqua; va comunque detto che negli anni precedenti il 1400 il territorio è in preda a continui mutamenti ed a sconvolgimenti dovuti alle continue guerre ed alle inondazioni che rendono lo stesso instabile e inadatto alla conservazione.
Ma nel momento in cui Venezia per garantirsi una sopravvivenza futura più certa, conscia del delicato rapporto che la lega al commercio, decide di investire nel suo entroterra, acquisendone le proprietà terriere, la storia del paesaggio e della vita agricola dei luoghi cambia in maniera sensibile: vengono programmate le prime opere di bonifica attraverso lo scavo dei fossi, il prosciugamento delle paludi, la bonifica delle aree; e dove non interviene la Serenissima arrivano gli enti religiosi con la fondazione nei luoghi in esame di una importante rete di conventi e monasteri; va peraltro detto e precisato che gli interventi diretti avvengono in ogni caso ad opera delle grandi famiglie padovane e veneziane a cui vengono affidate le grandi proprietà monastiche.
Si iniziano a produrre con successo il sorgo rosso, l’avena, la segale, il miglio, il panico, il sorgo e si da ai luoghi una organizzazione amministrativa e produttiva del fondo basata su:
– Corti centrali che organizzano superfici di 10/12000 campi;
– Gastaldie o Corti periferiche che organizzano in modo decentrato 2/2500 campi con edifici che riportano nelle facciate stemmi e riferimenti delle famiglie di provenienza;
– Possedimenti di ampiezza pari a 60/120 campi in cui è prevalente il mero aspetto produttivo e dove viene realizzata la casa colonica in muratura, spesso dedicata a figura di santi protettori, ed i rustici minori necessari in base al tipo di coltura applicato;
– Chiusure con edificate case coloniche in muratura ad un solo piano.
Con la scoperta delle Americhe e con il conseguente spostamento del traffico economico e commerciale, il territorio vive un periodo di decadenza e di abbandono a cui fanno seguito periodi legati a grandi malattie (come la peste del 1629/31, che provoca la morte di almeno il 40% della popolazione).
In questo periodo sia Venezia che le Fondazioni Ecclesiastiche diminuiscono il loro impegno, e con il minore impegno si arrestano, almeno fino al 1700, anche le opere di bonifica; le grandi famiglie decidono infatti di non coltivare più direttamente il terreno ma lo danno ad affittuari e mezzadri che pagano il proprio “tributo” versando parte del loro prodotto e questo aspetto si ripercuote negativamente sull’assetto dei terreni in quanto manca la “visione complessiva” e la capacità di organizzare e realizzare le opere di bonifica necessarie.
Si assiste, per questo motivo, ad un diffondersi della costruzione di casette bracciantili ad uno o due piani, spesso disposte a schiera.
Una parziale rinnovata prosperità si ha con la utilizzazione delle nuove colture importate, tra cui il granoturco, la patata, la vite, il tabacco, il fagiolo, il pomodoro, con il conseguente aumento della produzione agricola; in questo periodo vengono modificati gli edifici ampliando ed innalzando i portici, i barchi o barchesse destinati alla raccolta, cernita, deposito ed essiccamento del granoturco.
Ma l’avvento delle nuove guerre, con il continuo passaggio delle truppe francesi ed austriache che occupano i terreni e le case pubbliche e private, porta alla scomparsa di tutto il mondo della Serenissima: scompare la repubblica di Venezia e scompaiono gli Enti Ecclesiastici insediati, a cui vengono confiscati i terreni e tutti i beni in proprietà: con l’immissione nel mercato degli stessi si ha un redistribuzione della proprietà con conseguente diminuzione del valore dei terreni e dei prodotti agricoli.
L’800 vede l’affermarsi della “parrocchia” e della figura del parroco nella vita rurale, necessario riferimento religioso ed organizzativo per il contadino dopo la scomparsa delle famiglie nobiliari e delle organizzazioni religiose.
Dopo il 1900 vengono riprese le opere agrarie e di bonifica con la nascita dei retratti e dei consorzi agrari e vengono immesse nel mercato nuove attività di colture e allevamento (come il baco da seta) che portano alla continua modifica delle architetture edilizie.
Le tipologie storiche
La peculiarità territoriale della Saccisica si palesa in modo del tutto evidente nella soluzione data nei secoli scorsi al problema di dare una casa alle classi bracciantili più povere (quelle dei fittavoli), case che potessero essere costruite in estrema economicità con materiali facilmente reperibili in zona: ed ecco i casoni (le case de paglia su cui tanto si è scritto e sui quali sempre si punta quando si richiama al modo di vivere in campagna che ha caratterizzato fortemente i nostri territori per circa un millennio.
Un modo di abitare che pur essendo sempre endemica ha toccato però la maggior diffusione tra il Cinquecento e il Settecento, all’epoca del massimo sviluppo del latifondo veneziano, lasciando tracce documentali ben precise nei vari estimi (denuncie di proprietà) del tempo, in cui spesso appaiono elencate come case de paglia.
Al di là dell’aspetto sociale (vivere nei casoni non era certo una libera scelta dettata da una alta qualità dell’abitare, ma una necessità imposta dalla struttura proprietaria e dalla scarsità di mezzi) le soluzioni costruttive integravano in modo sapiente le potenzialità dei materiali disponibili: la copertura in canne ricavate dalle zone umide (realtà ancora presenti in un territorio con una così risicata altezza sul livello del mare), i mattoni in argilla cruda, il legname per la struttura del tetto.
Certo, il pavimento era in terra battuta, le finestre erano piccole per non disperdere il calore proveniente dalla stalla, che da parte sua era strettamente integrata dentro l’abitazione principale: il tutto non rendeva questi ambienti dei modelli di salubrità, ma indubbiamente (e qualche nostro anziano contadino lo può ancora raccontare), date le condizioni di partenza, il risultato era egregio.
Nei casoni poi non si rinunciava mai ad un tocco di vera architettura quando si trattava di costruire il camino: a fronte della necessità di realizzare una struttura alta e molto canalizzata per minimizzare il rischio di incendio del tetto, permane la documentazione fotografica di elementi di impatto decorativo veramente notevole, quasi sproporzionato al valore formale del resto della costruzione.
Vari sono i modelli e varie le loro evoluzioni: ma gli elementi fondamentali sono sempre ben evidenti e scolpiti nel nostro immaginario:
– la copertura, con le ampie falde dalla accentuata pendenza, predominante sul basso perimetro della muratura portante non solo dal punto di vista dei rapporti volumetrici ma soprattutto per l’impatto (oggi) scenografico;
– la pianta di massima è a forma rettangolare e di assoluta semplicità;
– la disposizione interna, che rispecchiava il modo di vita di allora risaltando il ruolo centrale della cucina, vero ambiente unico della casa a diretto contatto con la stalla (il “tinello” del contadino);
– il camino staccato a dimostrare quasi una propria e diversa dignità e solidità anche nel tempo.
A decretare la “morte” dei casoni fu una legge dello Stato: la legge 9 agosto 1954, n. 640 (provvedimenti per l’eliminazione delle abitazioni malsane) pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 186 del 16 agosto 1954: con tale normativa si disponeva che i Comuni dovessero procedere alla dichiarazione di inabitabilità degli ambienti abitativi riconosciuti insalubri e attivare procedure di sgombero degli abitanti per trasferirli in nuovi alloggi realizzati a cura e spese dello Stato.
Fu così che, sulla base di principi generici derivanti ed ispirati alla “esigenza di rendere “attraente, sana ed igienica” la casa dell’agricoltore, per “affezionarlo alla terra perché nella casa stessa trovi il dovuto conforto ed il meritato riposo dopo il duro lavoro dei campi” si incentivò la distruzione dei casoni per sostituirli con case più moderne, non più sviluppate sulla base di interazioni storiche tra contadino e territorio, ma sulla base di tipologie standardizzate studiate da tecnici del settore.
La legge ebbe un notevole successo e nel territorio della Saccisica furono abbattuti e trasformati centinaia di casoni: basti pensare che nel solo Comune di Piove di Sacco nel 1931 erano censiti ancora 366 casoni, di cui 46 adibiti esclusivamente ad uso stalla o per ricovero di attrezzi rurali.
E’ interessante sottolineare come in questo censimento si rilevi che ” … una metà circa di quelli ad uso abitazione sono in condizioni igieniche soddisfacenti perché costruiti con pietre cotte e coperti con buona paglia , provveduti di finestre e balconcelli ed aventi pavimenti di pietra … sono sufficientemente arieggiati e per la loro buona manutenzione possono ancora servire allo scopo”.
Fortunatamente alcuni (pochissimi) sono ancora visibili, sia pur ricostruiti, utilizzando comunque, per quanto possibile, materiali e tecniche di allora: ed è certamente questo il modo migliore per rispettare quanto i nostri predecessori erano riusciti a ideare con mezzi così limitati.
Altre realtà di case bracciantili, di livello costruttivo relativamente più elevato, erano connesse alle piccole proprietà contadine, soprattutto in epoche più recenti: sono case denominate (sempre negli estimi) de muro, quindi con struttura in mattoni e copertura in coppi.
Vediamone gli assetti tipologici principali.
La casa bracciantile
Come tutte le tipologie edilizie, anche quelle delle case bracciantili tipiche del nostro territorio, partendo da una comune base, si articolano in diversi sottotipi, che coniugano in modo diverso, a seconda delle esigenze funzionali necessarie, i caratteri tipici di tali costruzioni, dati dalla assoluta semplicità della pianta e dell’alzato, frutto non di una progettazione colta ma di sedimenti di sapienza pratica, risultato di secoli di sinergia con il proprio territorio ed il proprio habitat.
Quale base di partenza troviamo la lineare conformazione della casa bracciantile minima, vale a dire ad un piano di essenziale forma rettangolare, ad un modulo di profondità (vale a dire che la larghezza della casa coincideva con la larghezza di un’unica stanza), comprendente una cucina nella quale si apriva l’unico ingresso, con il camino aggettante, e uno o due vani laterali destinati a camera (v. esempio A).
In questo assetto il tetto era sempre a due falde e poco inclinato, marcando cosi il netto distacco dal consueto schema del casone, con tipologia a quattro falde, sempre con pendenza molto accentuata.
Dal punto di vista costruttivo rileviamo la presenza di una travatura di colmo alla quale si appoggiavano le travi secondarie.
Una tipologia più evoluta e più ricca si articolava su due piani, prevedendo quindi un vano scale centrale a dividere le due stanze al piano terreno, una delle quali destinata a cucina con il consueto camino aggettante (v. esempio B).
Al piano superiore le due falde del tetto, ugualmente con trave di colmo, costituivano anche il soffitto delle camere.
Una possibile variazione di tale assetto era costituita dalla presenza di un vano cucina centrale con il corrispondente camino verso nord, e un piccolo vano scale laterale.
Una ulteriore evoluzione di questo tipo era costituita dalla casa bracciantile a due piani e a doppia profondità (v. esempio C) con la cucina sempre esposta verso sud e un corridoio centrale che serviva da disimpegno per l’accesso alle varie stanze a alle scale poste alla fine del corridoio stesso.
Anche in questo caso il solaio di copertura fungeva da soffitto delle stanze superiori.
Grazie alla diversa struttura delle murature portanti, le travature del tetto erano appoggiate, ortogonalmente rispetto alla facciata, sul muro maestro che divideva gli spazi anteriori da quelli posteriori.
Una variante tipologica, abbastanza diffusa, proponeva il vano scale di una certa importanza in posizione laterale sulla falsariga di quanto si usava negli edifici padronali di ben altro pregio, oppure la scala veniva situata in posizione defilata in una delle stanze posteriori.
Le aperture, la cui funzione è di illuminare, arieggiare e smaltire il fumo, sono sempre di dimensioni ridotte per trattenere il calore, e si presentano generalmente cadenzate in modo regolare secondo un semplice schema compositivo, nel quale era sempre rispettato l’allineamento delle finestre ai due piani.
Come già rilevato in precedenza, in molti casi le esigenze dell’azienda agricola richiedevano spazi coperti ulteriori da destinare a deposito (principalmente di attrezzi e granaglie) oppure a fienile o per il ricovero degli animali: ecco quindi che queste tipologie di base si arricchivano di annessi rustici di varia consistenza e forma.
Anche in questo caso possiamo rilevare delle regole compositive, che mai come in questo caso, sono dettate dalla sapienza quotidiana, stimolata dalle esigenze pratiche sedimentate in secoli di esperienza.
L’aggregazione più semplice, nel caso di edifici ad un modulo di profondità, era rappresentata dalla semplice addizione laterale del nuovo volume, allungando le murature perimetrali e la copertura e articolando le aperture a seconda delle necessità.
Dal punto di vista sempre funzionale, tali aperture dovevano garantire una comoda accessibilità, un idoneo riparo, anche dalla luce, e, non meno importante, una giusta areazione: ecco quindi al piano terreno la teoria di finestrelle (anche con la caratteristica forma a lunetta) oppure, al piano superiore, le tipiche fessure ricavate a nord giocando con la tessitura dei mattoni per restituire trame anche gradevoli dal punto di vista estetico.
Sulla facciata principale, verso sud, spesso non mancava una elegante cortina in legno che serviva da riparo e che denunciava in modo volutamente evidente la diversa funzione di quel tratto di costruzione.
Una ulteriore evoluzione dell’annesso rustico è quello che possiamo indicare come giustapposto: sulla porzione aggiunta, la falda del tetto verso sud (facciata principale) viene portata avanti in pendenza in modo da sopravanzare rispetto alla linea della facciata stessa, creando così una porzione di portico.
L’assetto tipologico assume, in questi casi la caratteristica conformazione ad “L”, che così spesso ritroviamo nel nostro territorio (v. esempio D).
Gli annessi rustici possono però ritrovarsi anche staccati rispetto al corpo edificato residenziale; possiamo ritrovare semplicissime costruzioni in muratura ad uno o due piani con tetto a due falde e con ampie aperture sul prospetto principale.
Altri tipi di annesso sono strutturati su un’orditura di pilastri, ovvero, nel caso più articolato, presentano una parte chiusa e una parte di porticato.
Alcune particolarità comuni in tutte le tipologie sopra descritte:
– i servizi igienici erano sempre individuati fuori dal sedime dell’edificio; solo più tardi verranno ad esso inglobati attraverso “gemmazioni” edilizie nelle parti retrostanti dello stesso;
– negli edifici occupati dalla gente più povera, il calore veniva procurato dalla stalla, che occupava i locali posti nel retro degli edifici, dove potevano ritrovarsi più famiglie alla sera e magari fare filò.
La fattoria
Con il termine fattoria intendiamo una tipologia più ricca ed articolata di quelle riguardanti le più semplici case bracciantili: edifici destinati ai piccoli proprietari o al fattore.
Il carattere comune è quello di edifici a due piani e a doppia profondità, generalmente caratterizzati dalla presenza, a fianco della porzione più propriamente abitativa, di ampi porticati integrati nel volume dell’edificio, caratterizzati da teorie di arcate (quasi sempre a tutto sesto), a volte anche realizzati con diverse altezze a seconda delle necessità, che connotano in modo evidente i prospetti principali rivolti a sud.
La motivazione della presenza del portico è puramente pratica, trattandosi di un prezioso spazio di riparo dal clima difficile delle zona, che permette di lavorare e di depositare i materiali al coperto.
In questi edifici il portico assume quindi, oltre al mero valore funzionale, un ruolo distributivo e architettonico di tutto rilievo, il cui rapporto con la parte abitativa contribuisce a definire le varie sotto-tipologie.
La disposizione dei locali deriva dalla posizione del portico: se incorporato, sopra di esso trova collocazione la “teza” che si estende anche sopra la stalla; se è esterno, la stalla è inglobata nella casa e ad essa collegata; nel collegamento viene inserito un locale filtro (deposito – camera – seciaro) in modo che la vita umana ed animale sia separata; a volte il portico è chiuso ed occupato dalla stalla; in tal caso le nuove murature non sono realizzate a filo pilastro.
Ritroviamo, quindi, varie declinazioni della tipologia di base, a partire da quella più semplice, nella quale ai vari moduli della parte porticata si aggrega un solo modulo di residenza, articolata ai due piani in vani anteriori e posteriori (v. esempio E).
In tale tipologia il vano che prospetta verso sud al piano terreno è di massima destinato alla cucina (sempre con il tipico camino aggettante), soluzione peraltro necessaria, mentre la parte rustica prevede la stalla al piano terra e il fienile al piano superiore.
Tale schema si ritrova coniugato in vari modi con la parte abitativa che può estendersi fino ad essere preponderante rispetto al rustico.
Molto spesso succedeva che alle aumentate esigenze di famiglia (i gruppi familiari rurali erano di norma assai numerosi e quando i figli si sposavano si cercava casa il più vicino possibile al nucleo originario, che costituiva peraltro anche l’ambito lavorativo) si trovasse una comoda soluzione trasformando un modulo rustico in abitazione, murando un arco di portico e creando una tramezzatura trasversale.
In alcuni casi il porticato si estende anche al piano terreno della abitazione propriamente detta, generando in tal modo una scenografica doppia successione di arcate a diversa altezza (semplice e doppia). Questa soluzione impone, ovviamente, di posizionare la cucina negli spazi retrostanti in modo da disimpegnare il camino.
Altro elemento sempre presente (per ovvie necessità) era il camino, sporgente dalla muratura d’ambito, con la canna fumaria -sempre ben dimensionata e studiata in forme particolari- che si elevava al di sopra del colmo del tetto: la sporgenza del camino era dettata da motivi -ancora una volta- essenzialmente pratici, dovuti alla difficoltà, in caso contrario, di dover perforare il tetto e di impedire quindi il conseguente pericolo di infiltrazioni d’acqua all’interno dell’abitazione, da aggiungersi al pericolo di incendio per l’uso costante di materiali infiammabili (paglia e legno).
Altre tipologie di fattorie, peraltro meno frequenti, assumono quasi il carattere di palazzetti urbani, anche a due piani più soffitta: in questi casi l’assetto tipologico ricalca quello delle ville con un vano principale passante e scalone laterale.
La copertura si attesta in modo importante a quattro falde.
Gli annessi rustici pertinenti alle fattorie, quando si trovano staccati rispetto all’edificio principale, si mostrano come vere e proprie barchesse di notevole profondità, con importanti prospetti modellati da serie di arcate, per lo più a pieno sesto, ripartite da pilasti che sorreggono le capriate lignee del tetto, con modelli strutturali a volte abbastanza originali e complessi (v. esempio F).
La composizione del lotto e paesaggio agrario
L’assetto dislocativo degli edifici, rispetto alle caratteristiche del fondo rurale e dei rapporti reciproci, funzionali e morfologici, tra i vari corpi di fabbrica, era molto importante.
Il fronte principale dell’edificio abitativo era sempre rivolto verso sud, in modo da sfruttare in modo completo le potenzialità dell’irraggiamento solare nelle varie stagioni.
L’aia, posta davanti all’abitazione, era normalmente lastricata, di solito in laterizio, per consentire, al riparo dall’umidità del terreno, una molteplicità di utilizzi connessi alle varie attività agricole tra i quali, prevalente, quella di essicatura e di battitura di cereali.
Il pozzo è posto di lato all’abitazione e non molto lontano da essa.
Le adiacenze rustiche, come abbiamo visto, erano posizionate in continuazione del corpo principale, contiguo o giustapposto.
Nel caso in cui fosse stato necessario realizzare un corpo rustico staccato, questo era posto generalmente in posizione perpendicolare al corpo principale, a chiudere, verso est o ovest la corte che così veniva delineata.
Altrettanto importante il rapporto tra il nucleo abitativo, comprendente gli annessi rustici, e il fondo di pertinenza, che il colono doveva obbligatoriamente provvedere ad un accurata sistemazione provvedendo al suo miglioramento attraverso lo scavo dei fossi, le nuove piantumazioni e quanto altro risultasse necessario, elementi tutti strettamente correlati nel concetto stesso di paesaggio agrario.
Paesaggio che è fortemente connotato dalla densa tessitura degli argini dei corsi d’acqua principali e dei fossati secondari (capifosso e scoli irrigui), dalla cui corretta e sistematica manutenzione dipendeva e dipende gran parte della salvaguardia dei terreni del nostro territorio dagli allagamenti, eventi purtroppo ricorrenti in una zona così marginale tra la terraferma e la laguna.
Ancora paesaggio sottolineato dai filari di pioppi e gelsi e dalle linee delle siepi, molto importanti anche dal punto di vista di buona efficienza dell’intero ecosistema locale.
Né va dimenticata la trama delle stradine di campagna e delle capezzagne, che tutti questi elementi ricuce e mette in collegamento, attraverso la scacchiera dei campi coltivati.
E non va sottovalutato il fatto che ogni tipo di coltura ha le sue valenze anche morfologiche, oltre che a portare a soluzioni impiantistiche specificatamente funzionali, e ogni epoca ha avuto le priorità produttive a seconda dei vantaggi economici che mano a mano si rivelavano più convenienti (esempio tipico il mais).
Componenti architettoniche
Finestre.
Le finestre delle costruzioni bracciantili più antiche presentano un rapporto dimensionale tra altezza e larghezza piuttosto basso (rapporto di circa 1,4) e sono di piccole dimensioni per diminuire la dispersione termica.
Nelle costruzioni più recenti tale rapporto aumenta, poiché è maggiore l’altezza, mentre la larghezza di base rimane attestata sui 70/90 cm per le camere: le aperture che si aprivano su stalle, ricoveri o magazzini erano ovviamente molto più piccole, non interessando il fattore illuminate.
Nei fienili, infine, erano diffuse le feritoie ricavate dalla scomposizione della tessitura di porzioni di muratura.
Nelle case bracciantili non si utilizzavano davanzali in pietra, troppo costosi, ma venivano realizzati in mattoni, posti a coltello e intonacati.
La parte superiore del foro, generalmente piatta, poteva anche prevedere un architrave lievemente curvato (a sesto ribassato).
Gli oscuri, in legno e a due battenti, erano incernierati esteriormente.
Porte.
Analogamente alle finestre anche per le porte si rileva che nelle costruzioni più antiche hanno una larghezza appena sufficiente a far passare una persona alla volta o un animale e una altezza limitata: il rapporto dimensionale risulta quindi molto basso, rapporto che appare maggiore invece nelle abitazioni più recenti.
Anche in questo caso può esserci un architrave a sesto ribassato.
E’ sempre presente un gradino per l’accesso allo spazio abitativo, a garanzia di eventuali intrusioni d’acqua, realizzato con tre file di mattoni sovrapposti.
Ovviamente gli schemi tipologici base fin qui illustrati, facilmente deducibili nell’esaminare gli edifici di pregio storico-ambientale presenti nei nostri territori, hanno conosciuto nell’applicazione pratica una miriade di trasformazioni e adattamenti a seconda delle contingenti esigenza dei fruitori, secondo un processo che, se non ha quasi mai stravolto la loro impostazione originaria, ha portato a organismi edilizi a volte molto diversi da quelli iniziali soprattutto negli ultimi decenni.
E’ stato proprio nell’ultimo scorcio del Novecento che, grazie anche a normative applicate in modo largamente permissivo, la maggior quota del patrimonio edilizio rurale storico, se non vincolato dagli strumenti urbanistici, è stato pesantemente manomesso ovvero (il più delle volte) demolito.
Spesso poi le vecchie costruzioni sono state affiancate da nuove edificazioni caratterizzate da fantasiose soluzioni tipologiche e architettoniche, che nulla hanno più da spartire con la sapienza concreta dell’ambiente contadino sedimentata da secoli.
Dobbiamo infatti tener presente che le case che abbiamo avuto modo di esaminare, non erano il frutto di un progettista come lo intendiamo oggi, ma della cultura del costruire propria delle maestranze edili locali, il che non significa necessariamente che vi fosse la riproposizione pedissequa di canoni standardizzati, ma che vi era lo spazio per adattamenti alle specifiche condizioni del sito o delle esigenze funzionali proprie di quell’insediamento, senza rinunciare peraltro anche a citazioni di dettami estetici di derivazione colta e, a volte, addirittura trattatistica.
Non a caso la mostra sull’architettura spontanea nell’ambito della VI Triennale di Milano del 1936, ha sancito il valore estetico della funzionalità della casa rurale italiana.
A fronte di uno scenario culturale così articolato e ricco, risulta evidente come sia compito di tutti adoperarsi per creare le condizioni affinché si attivi un processo di riuso e di restauro di tali importanti testimonianze storiche: ed è in tale direzione che alcune amministrazioni comunali si stanno muovendo per promuovere e incentivare l’uso delle originarie tipologie, così come qui descritte, anche nelle nuove abitazioni, per recuperare quegli elementi di paesaggio che tanto servono al recupero anche di una identità storico-culturale della Saccisica.